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Esclusione di diritto (art 2288 c.c) di un socio dichiarato fallito: effetti fiscali.
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Ettore Trippitelli
Rimini11/06/2024 12:27Esclusione di diritto (art 2288 c.c) di un socio dichiarato fallito: effetti fiscali.
Una persona fisica è socia in due società di persone, nello specifico due S.n.c.
Una di queste è dichiarata "fallita " e conseguentemente anche i soci sono dichiarati falliti in proprio.
Con riferimento all'altra società di persone in bonis, si verifica l'esclusione di diritto del socio fallito e la procedura fallimentare matura pertanto un diritto di credito dalla data della dichiarazione di fallimento.
La società ed il curatore trovano in accordo in merito al valore della quota del socio fallito.
La società, definite le modalità di pagamento, provvede a corrispondere alla curatela quanto dovuto per la liquidazione della quota del socio fallito.
Per la società la differenza tra l'importo liquidato alla curatela del socio ed il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione , costituisce costo deducibile dal reddito.
La logica sottostante è che specularmente per il socio fallito la differenza dell'esclusione dovrebbe costituire reddito imponibile.
In questa ipotesi chi è il soggetto passivo d'imposta? Il curatore o il socio fallito? Ed il curatore come si deve comportare nei confronti del socio fallito, considerando ovviamente che questi non ha certo le risorse finanziarie per pagare le relative imposte?
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Stefano Andreani - Firenze
Luca Corvi - Como25/06/2024 16:12RE: Esclusione di diritto (art 2288 c.c) di un socio dichiarato fallito: effetti fiscali.
Punto di partenza è l'art. 183, terzo comma, del T.U.I.R., a norma del quale al Curatore fa capo la determinazione e dichiarazione del reddito d'impresa del fallito persona fisica maturato in corso di procedura, determinato con la specifiche modalità previste da tale articolo (differenza fra residuo netto e patrimonio iniziale): il provento in questione non genera reddito di impresa, è quindi al di fuori dei doveri dichiarativi del Curatore.
Può ingenerare qualche dubbio la formulazione non felice dell'ultimo periodo di tale comma, che recita: "Per i redditi relativi ai beni e diritti non compresi nel fallimento ... a norma dell'articolo 46 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, restano fermi, in ciascun periodo di imposta, gli obblighi tributari dell'imprenditore o dei soci".
Ciò perché tale locuzione parrebbe "lasciar fuori" dagli obblighi tributari i redditi non di impresa e non impignorabili ex art. 46, e si tratta di importi a volte consistenti, e soprattutto non certo infrequenti: redditi da locazione di immobili non facenti parte dell'impresa, plusvalenze imponibili, da cessione di beni personali e altre, fra le quali il caso prospettato nel quesito.
Soccorre sul punto la Risoluzione 171/2002, che testualmente afferma che:
- "Occorre infatti considerare... che il fallito, imprenditore individuale o socio di società personale, mantiene la soggettività passiva tributaria ed anche la piena titolarità giuridica dei redditi personali, sia attratti al fallimento, sia estranei ad esso.
Infatti, la perdita della disponibilità del reddito, conseguente al fallimento, e la sua destinazione vincolata non privano il reddito stesso, in astratto, di attitudine contributiva e non impediscono il sorgere dell'obbligazione tributaria.
Di conseguenza il fallito, per ogni singolo periodo d'imposta, dovra' indicare nella propria dichiarazione sia i redditi personali, non attratti al fallimento a norma dell'art. 46 della legge fallimentare, sia quelli direttamente attratti al fallimento (redditi da lavoro, rendite, ecc) sia quelli derivanti da beni attratti al fallimento (fitti su immobili, dividendi o plusvalenze su partecipazioni, ecc)".
Chiarito che gli obblighi dichiarativi spettano al fallito e non al Curatore, si pone il problema di come possa egli corrispondere le imposte conseguentemente dovute, essendo le sue disponibilità personali, ante procedura o acquisite successivamente, attratte alla massa attiva fallimentare con la sola esclusione dei beni impignorabili.
Una soluzione è prospettata proprio dalla stessa Risoluzione 171/2002:
"Occorre comunque considerare che l'interpretazione sin qui seguita ... comporta l'attribuzione in capo al fallito dell'onere impositivo relativo a redditi dei quali egli non ha la disponibilità materiale.
Ove il fallito non fosse in grado di adempiere ... si prospetterebbe un evidente contrasto con il principio di capacità contributiva. ... Tale contrasto, ovviamente, non può essere superato addossando al fallimento un onere impositivo proprio del fallito, quale "spesa per l'amministrazione del fallimento" in regime di prededuzione ai sensi dell'art. 111 della legge fallimentare. Soccorre invece il principio, contenuto negli articoli 46 e 47 della stessa legge, in base al quale al fallito, durante tutta la procedura, deve rimanere la disponibilita' di quanto occorre per il sostentamento suo e della famiglia.
Pertanto, ai fini dell'effettivo rispetto del principio indicato e del principio costituzionale di capacita' contributiva, il curatore dovra' tenere conto, nel computo dei redditi da lasciare nelle disponibilita' del fallito per il soddisfacimento dei suoi bisogni essenziali, anche un ammontare di reddito corrispondente all'imposta gravante sull'imponibile in questione".
Tale impostazione non ci pare però del tutto in linea con la normativa fallimentare, atteso che:
- l'art. 46 parla della possibilità che al fallito sia concesso di trattenere "2) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia", e né i canoni di locazione né le plusvalenze né il caso qui in esame ci pare possano rientrare in tale elencazione
- l'art. 47 stabilisce che "Se al fallito vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato ... può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia", e non ci pare facilissimo considerare il pagamento delle imposte un mezzo di sussistenza, o una necessità alimentare.
Più facile ci parrebbe la strada dell'art. 42, secondo comma, a norma del quale "Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi": più che un sussidio o un obbligo alimentare, ci parrebbe meno forzato considerare le imposte a debito sorte in corso di procedura una passività derivante dall'apprendimento, da parte di essa, dei redditi e/o proventi che tali imposte hanno generato.
Si tratta comunque di materia che ci risulta non essere mai stata affrontata nemmeno in giurisprudenza, non sappiamo se perché accertamenti per redditi non di impesa o lavoro autonomo maturati in capo a soggetti falliti non ne vengano emessi, o perché oltre a non disporre di risorse per pagare le imposte, i falliti non dispongano nemmeno di risorse per incardinare contenziosi.
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